La metamorfosi della prima donna

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Nello sport, come nella vita, l’atleta cerca la sua consacrazione. La giovane promessa del basket collegiale spera di essere scelto al draft in una posizione molto alta e diventare la stella della sua franchigia. Se invece si entra nell’NBA dalla porta di servizio, tanta determinazione, abilità ed un pizzico di fortuna possono aiutare a capitalizzare al massimo quella piccola opportunità offerta. Chris Bosh non è esattamente il giovanotto uscito troppo presto dal college per colpire l’attenzione degli addetti ai lavori. Nel magico draft del 2003 Bosh è chiamato con la quarta scelta assoluta (dietro a LeBron James, Darko Milicic e Carmelo Antony ma davanti ad un certo Dwayne Wade) dai Toronto Raptors.
Le eccelse qualità di Bosh evidenziate nella sua esperienza collegiale a Georgia Tech(15.6 punti + 9.5 rimbalzi) non lasciavano adito a dubbi circa il ruolo da leadership da esercitare con la casacca della franchigia canadese.

Una leadership saldamente detenuta nelle sette stagioni passate all’Air Canada Center che però non gli hanno regalato la gioia del primo titolo NBA. Da questa analisi nasce, in soldoni, la scelta di Bosh di abbandonare il Canada per approdare ai nuovissimi Miami Heat targati Wade-LBJ.
Nel sontuoso organigramma degli Heat, CB4 è l’ingranaggio dorato da inserire in un motore progettato per armare sportivamente un LeBron pronto a vincere il primo anello in carriera. Si potrebbe subito obiettare al fatto che non sono tanti i go-to-guy, le “prime donne” capaci di cambiare squadra accettando il ruolo di finalizzatone secondario.
Tanto per fare un esempio si può citare il “curioso” caso di Dwight Howard il quale, con un contratto pluriennale e con lo status di leader maximo in tasca ha detto SI a degli ambiziosi Houston Rockets. Mentre Bosh ha optato per una devolution di responsabilità adoperando una scelta in controtendenza rispetto alla voglia dei grandi giocatori di essere sempre il punto di riferimento assoluto per la propria squadra.

Ma devolution a parte, Bosh non è approdato a Miami per una vacanza a lungo termine, e le sue statistiche nei tre anni di attività in quel di Miami sono qui a ricordarlo (17.7 punti e 7.6 rimbalzi). Le statistiche disegnano una parabola discendente rispetto agli anni a Toronto, ma non bisogna dimenticare la diversa filosofia di gioco di Miami, e il basso numero di palloni che transitano per le mani dell’ala. Adesso, due titoli NBA dopo, si parla di una possibile cessione di Bosh. L’alto ingaggio, le statistiche in discesa, l’età e le incombenze della Luxury Tax sono tutti argomenti molto validi sulla scrivania del presidente Pat Riley.
Queste valutazioni empiriche vanno però integrate con alcune riflessioni di carattere pratico. Va innanzitutto ricordato come lo zampino di Bosh nelle due ultime Finals NBA ci sia stato eccome, aiutando LeBron e soci a mantenere la giusta direzione anche nei momenti di maggior appannamento, difendendo come mai aveva fatto nella sua carriera e accettando un ruolo da totale comprimario, al livello dei vari Andersen, Battier e Miller.

Inoltre va ricordato come Miami abbia saputo lavorare su questo trio, trasformando tre grandi atleti e Superstar in tre compagni di squadra pronti a fare quadrato nell’interesse del gruppo. Questo genere di alchimie non sempre portano buoni risultati ma osservando la disarmante superiorità tecnica di questi Heat si può affermare che l’esperimento è riuscito, anche grazie alla collaborazione di un ex go-to-guy che si diverte a venir fuori al momento opportuno. Proprio per questo Riley e Spoelstra hanno deciso di mantenere inalterato il gruppo, per cercare di arrivare al Three-peat, prima dell’arrivo dell’estate 2014, che cambierà tutto.