Steve Nash – Le meraviglie del possibile

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“No, grazie!”
La scatola da scarpe si gonfia di carte sintetiche e sbiadite, ma Steve non smette di alzare il coperchio e di riempirla con le gocce d’inchiostro che gli accendono l’orgoglio. Colleziona rifiuti: decine di college da ogni parte dell’America ricevono le referenze di coach Hyde-Lay, ma nei primi anni Novanta la St. Michaels University School non è il miglior indirizzo per un curriculum cestistico. Il basket a stelle e strisce non considera i canadesi: i figli della Foglia d’Acero tracciano linee di sviluppo sui ghiacci dell’NHL e si baloccano con gli sport che provengono dall’amato Commonwealth, ma la storia tecnica dell’illustre connazionale James Naismith non li vede alla stessa pagina dei ragazzini che popolano le distese a Sud dei Grandi Laghi…

Steve incassa gli stop, ma non si ferma: la resa e l’arresto non fanno parte del vocabolario di un giovane anglo-gallese nato in Sudafrica e trapiantato prima nelle distese canadesi di Regina – Saskatchewan, poi sotto i più benevoli cieli della British Columbia per seguire le orme girovaghe del padre-calciatore. Le sfide “olimpiche” con il fratellino Martin e l’educazione globale di una famiglia aperta agli influssi migliori dello spirito del Commonwealth britannico plasmano il carattere e disegnano il destino al di là dei facili scetticismi che le comunità delle radici nutrono nei confronti degli esseri umani che fanno dei piedi e della mobilità le ragioni dell’esistenza. Steve conosce fin troppo bene il ritornello pessimista degli scettici.

Al college? Tu? Ma se non hai neppure i voti per salvarti in matematica! Scienze, poi? Un disastro!
Le paternali dei professori gli ronzano ancora in testa e spalancano un sorriso d’orgoglio negli occhi fissi di un ragazzo diverso: il liceo gli ha lasciato enormi lacune scolastiche, ma gli ha insegnato la stordente bellezza del lacrosse e del rugby, gli ha fatto capire che il soccer può essere un linguaggio universale e gli ha trasmesso una devozione sconfinata per il basket. Gli allenatori non sanno dove indirizzarlo poiché si trovano davanti un prodigio poliedrico: il fisico di un normotipo nasconde il genio multiforme di un atleta naturale. Ricorda Proteo, il dio greco delle trasformazioni continue e della sorpresa universale, ma non convince gli scettici neppure quando recupera tutti i programmi ministeriali in pochi mesi: il talento si combina all’ambizione e s’immerge nella coscienza meticcia di un cittadino del mondo, ma i recruiting staff dei college americani non se ne accorgono.

Arriva solo una busta “buona”. “Santa Clara? Tu dai gesuiti?
Steve non batte ciglio e prepara le valigie: accanto agli outfit non allineati di uno spirito libero trovano posto sfere di ogni ordine e grado. Le palline da tennis accompagnano tutti i suoi spostamenti; gli studenti del campus lo osservano con curiosità e rimangono basiti dall’insostenibile leggerezza dell’essere con cui accompagna i rimbalzi sconnessi della piccola compagna di giochi.
Ma questo qua chi è? Il matto di turno?
I compagni di studio si accorgono molto presto che il ragazzino del Canada vede il mondo attraverso lenti del tutto autonome e originali: non si limita a essere un liberal, ma propone temi di dibattito e spazi di discussione che sorprendono per inclinazione e prospettiva anche i figli della California degli anni Novanta, l’autentica locomotiva dell’esperimento socio-culturale americano. Passano pochi mesi e i tifosi dei Broncos capiscono che lo sguardo centro-periferico sul mondo di quel bizzarro “straniero” si traduce in un travolgente bolero cestistico: il campus si anima e il palazzo si riempie, i risultati arrivano e il Torneo NCAA compare all’orizzonte di Santa Clara. Gli upset si alternano alle sconfitte, ma l’universo del basket professionistico si accorge di Stephen John Nash: nel 1995 i tempi non sono ancora maturi, ma dodici mesi dopo si presenta al Draft NBA con una laurea in sociologia e la malcelata ambizione di riempire un’altra scatola da scarpe con le opinioni degli scettici. La Lega dei Magnificent Bulls e dei Seattle Sonics mostra una generazione di talenti “at the One Guard spot”, ma diversi GM sembrano propensi a investire sui creatori di gioco.

D’accordo, ma un canadese? OK Rick Fox, OK Bill Wennington, ma questo calciatore sbiadito dove potrà mai arrivare?
I Phoenix Suns si smarcano dalla platea degli scettici e regalano a Steve Nash il cappellino numero 15, ma gli analisti sanno che il roster del deserto è gonfio di soluzioni nel backcourt: le preghiere illuminanti di Kevin Johnson, la scomoda personalità di Sam “I Am” Cassell e l’intrigante prospettiva di un ex-balbuziente capace di zittire gli scettici chiudono parecchi spazi ai sogni di un rookie. Se i primi due nomi possono finire in mezzo ad alcune voci di mercato, il diamante Jason Kidd non lascia grandi margini di sviluppo alle sue spalle. Steve non si scompone: si adatta a uno scenario che ricorda – almeno in parte – la vicenda di TJ Warren e le scelte dei Suns nell’estate 2014 e prende contatto con la Lega. Cresce in silenzio e non smette di sviluppare una visione della realtà capace di tenere conto diverse prospettive: le singolari angolazioni dell’esistenza di un ragazzo che affascina con la semplicità di uno sguardo meticcio si fondono alle esperienze che gli sport britannici regalano a una coscienza critica. Nash osserva e apprende, aspetta un’occasione e studia il mondo NBA, mantiene i contatti e si fa conoscere; quando Donnie Nelson convince papà Don a portarlo a Dallas, le sorti dei Mavericks e della pallacanestro tedesca cambiano per sempre. Mark Cuban rilancia la franchigia sull’immagine di Michael Finley, ma il coach più stravagante dell’era moderna sfrutta le scintille canadesi di Steve per accendere il talento ineffabile di Dirk Nowitzki; l’American Airlines Center scopre una passione profonda e la squadra lievita, ma la tecnica e la creatività offensiva non bastano per strappare l’Ovest dalle prese alternate degli Spurs e dei Lakers.

Nash incanta sul parquet e punge il conformismo texano con la disarmante sincerità del pacifismo: non sopporta la guerra in Iraq e scrive su una maglietta un pensiero che lo avvicina a milioni di persone, ma l’atmosfera del Patriot Act e gli “anni ruggenti” di George W. Bush Junior gli attirano stuoli di critiche. Ha quasi trent’anni e si avvicina alla free agency; non vuole lasciare i Mavericks e il fratellone Dirk, ma il contratto non rispecchia il valore di un All-NBA Player. Cuban non vuole investire su un giocatore che sta per iniziare la seconda fase della carriera… “Quella del calo…“, pensano in tanti.
Nell’estate del 2004 torna a Phoenix e trova le macerie di un progetto tecnico che cerca ancora un autore, ma legge negli occhi del coach (D’Antoni) la stessa energia irriverente che scorre nel suo sangue mestizo, vede nell’atletismo debordante di Amar’e Stoudemire e Shawn Marion le molle per l’uscita dalla crisi e capisce che Joe Johnson ha il talento puro di un iniziato del gioco. Per nascere, una rivoluzione non ha bisogno di tante parole: ne bastano quattro.
Seven seconds or less, baby!

Steve sorride e raccomanda ai ragazzini di regalare l’abbonamento all’arena a tutti i loro amici; lo sguardo del cittadino del mondo scruta già le foreste pietrificate degli osservatori avversari e le mascelle cadenti di tutti gli scettici. A trent’anni suonati si prepara a rivoltare il gioco come un calzino: “only Sun and gun, coach, no doubt!”. Per tre stagioni la fantasia incredibile di un genio s’intreccia alla lucidità insostenibile di uno studioso del gioco: il ritmo e la varietà di Bob Cousy entrano nei polpastrelli di Larry Bird e s’immergono nel look di una star alternativa; il sorriso disarmante di Magic Johnson si stringe all’estro tagliente di “Pistol Pete” Maravich; la bellezza apollinea dei fondamentali s’intreccia al furore dionisiaco di uno stile collettivo che non conosce eguali. Manca qualcosa? Un particolare evidente, un dettaglio centrale che la scena culturale dello sport americano rifiuta di trascurare e trasforma in un ossessione.
La vittoria.
I Phoenix Suns sorpassano gli ostacoli regolari con la disarmante rapidità di un rullo compressore e superano gli scossoni che le strane politiche presidenziali impongono al roster in ogni estate con la meravigliosa irriverenza che pervade le idee di Mike D’Antoni o le interpretazioni di Alvin Gentry, ma non esorcizzano gli spettri in nero-argento e gli incubi giallo-viola; gli Spurs e i Lakers vanificano le rincorse all’anello di Steve Nash con la forza d’urto che anima le corazzate dell’Ovest. L’ombra lunga del perennial recordman per assist e recuperi John Stockton ricopre gli sguardi vividi del genio canadese: le platee di tutti gli Stati Uniti lo guardano giocare senza osservare il punteggio e lo votano per l’All Star Game, attendono le perle dell’istinto e contemplano i frutti dell’intelletto, incrociano le dita per lui e lo accompagnano verso il luogo del destino.

Los Angeles.
I Lakers srotolano il red carpet e costruiscono una squadra da sogno: il pick-‘n-roll tra Steve e Dwight Howard completa la fame ineffabile del Black Mamba e la tecnica celestiale di Pau Gasol in un lineup da Hall of Fame, ma l’alchimia dei fattori opposti non riesce. L’anagrafe appesantisce le gambe di Nash e la spondilolistesi gli inchioda la schiena, ma l’amore eterno per la palla a spicchi accende le rare giocate del #10 con la magia di un numero speciale: vuole onorare le grandi leggende del calcio e spalancare un ponte verso l’impossibile poiché le pupille non smettono di guizzare tra le dimensioni del parquet e la sfera intangibile della classe. Non vince. Disegna leggenda.
Quando un carico sbagliato e uno slancio di generosità bloccano la colonna vertebrale al verdetto del tempo, Steve attende l’ineluttabile con la classe di un uomo che rende onore alla fiducia di Mitch Kupchak; si mette a disposizione per una trade, ma i Lakers mantengono il contratto in organico per concedergli l’onore del Sunset Boulevard nella Città degli Angeli. Sta per salutare la compagnia, ma il fuoco dell’amore non smette di ardere.

La spinta che lo proietta oltre i confini di un corpo normale, il calore che gli fa abbattere i muri dello scetticismo, il soffio che gli fa inventare caterve di no-look passes, il senso che lo induce a plasmare intere no-look plays con l’inarrivabile semplicità di un occhio nascosto, l’intuito che lo porta a leggere le situazioni con una frazione d’anticipo, la gioia che lo accende sul parquet e travolge le masse con la splendida spontaneità della passione, il centimetro che lo tiene lontano dall’ultimo traguardo e lo avvicina alla specie umana.
Il fascino dell’incompleto? La bellezza della normalità? L’ineffabile spirito della felicità? Tutto questo e niente di ciò; nessun’immagine restituisce alla carta e al parquet la meraviglia di un uomo che trascende ogni soprannome. Un ragazzo di 41 anni, uno spirito libero che non vede l’ora di imparare una nuova vita nell’eterno ringraziamento all’universo cestistico che (lo) ama alla follia. Un figlio del Commonwealth cresciuto tra gli aceri che gioca la vita nella magica dilatazione dello spazio nel tempo, un fascio di sensazioni che regala ai testimoni del Duemila il privilegio della vera follia.
Quella che scava i sentieri.
We are all thankful, Steve.

2 COMMENTS

  1. Unico errore di una carriera fantastica il lasciare Phoenix (ed il suo staff medico 10 anni avanti a tutti gli altri) per cercare un anello a LA. Purtroppo il risultato sono stati 3 anni in cui ha giocato talmente poco da risultare un ex-giocatore.
    Sono convinto che se fosse rimasto ai Suns avrebbe giocato ad un livello decente anche quest’anno.

  2. Secondo me no. Cmq pareva già leggermente in calo a Phoenix… che poi il tracollo fosse così evidente nel giro di un’ estate nessuno se lo aspettava.
    Nessun rancore per steve, mi ha fatto sognare anche quando stava a phoenix.

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