Tim (Duncan) e Manu (Ginobili): two for the ages

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2003

Tim Duncan e Manu GinobiliTexas, giugno 1999. L’aria si gonfia di elettricità. La frontiera fra gli Stati Uniti e il Messico riecheggia le tensioni che attraversano la spina dorsale delle Americhe: il confine ribolle di traffici e congela le speranze, ma il vento secco non trasporta solo gli echi sordi delle violenze; si sentono musiche di festa e caroselli di gioia. La vita delle città texane scorre attraverso i solidi binari dell’abitudine petrolifera, ma nello sport il cambiamento impensabile è diventato possibile: uno dei mercati più piccoli degli Stati Uniti ha strappato il titolo NBA alle scene di Chicago e Los Angeles, Boston e Detroit, New York e Washington. L’anello torna in Texas, ma non saluta più la NASA di Houston e non ripercorre ancora le scie di JFK a Dallas: David Stern trasforma Fort Alamo nel vertice del dopo-Jordan e premia le sue Twin Towers, David Robinson e Tim Duncan.

Simboli ed emblemi, punti di riferimento e protagonisti improbabili: lunghi veri e apostoli dei fondamentali, atleti formidabili e fisici slanciati, laureati in corso e orgogliosi di una formazione complessa. David e Tim sono cerniere tecniche: i movimenti che hanno permesso agli Spurs di spegnere le velleità di Latrell Sprewell e dei New York Knicks proiettano l’esprit de finesse degli anni Sessanta e Settanta nei ritmi portentosi del basket 2.0, ma faticano ad allontanare da San Antonio i dubbi degli scettici: la giovinezza di Duncan è portentosa e lascia intravedere scenari di dominio, ma in una piazza così piccola non c’è spazio per i sogni. Molti addetti ai lavori pensano che i nero-argento non andranno lontano: non potranno ripetere le magie di un anno contraddistinto dal lock-out e dal vuoto di potere post Three-peat… Le grandi piazze si risveglieranno… Una dinastia possente si prenderà il dopo-Jordan… Se Jackson andasse a Los AngelesShaq&Kobe

Mentre i Lakers costruiscono il ciclo del nuovo millennio, la dirigenza degli Spurs vive l’atmosfera inedita della regalità: la festa della città riecheggia negli animi nero-argento, ma lo sguardo di Gregg Popovich e le parole di R.C. Buford riportano tutti sulla Terra. Il coach e il General Manager non hanno dubbi: il ragazzo nato a Saint-Croix immerge nella calma olimpica del Caribe la coscienza oceanica di un nuotatore frenato dal destino e il fuoco tecnico di un iniziato ai misteri dell’arte di James Naismith, ma la profondità silenziosa del suo sguardo non riesce a nascondere una fame insaziabile. Tim è nato per vincere.

“Non riposare mai finché il buono non è diventato migliore, ma non smettere di lavorare finché il migliore non si è fatto ottimo”. Coach Pop entra sotto la pelle della star di Wake Forest e proietta l’orgoglio di un agente della CIA sull’orizzonte degli Spurs: se un successo è solo un trampolino di lancio verso un futuro più grande, le fortune di una franchigia si costruiscono tra la scrivania del front-office e il campo di allenamento. Lo staff conosce l’improbabile e lo insegue: un bacino piccolo diventa importante solo se sa gestire bene i Draft e se fa innamorare di un’idea i giocatori-chiave, ma i limiti dell’anagrafe minacciano il roster del 1998/1999 e i destini di un gruppo non passano mai attraverso la scelta numero 57. Mai, o quasi…

Coach, chi scegliamo? Io conosco due argentini: una point-guard dal talento sudamericano e uno smilzo che salta come un pazzo… Mi dicono che il magro abbia vinto un campionato in Italia, ma forse l’altro ha più potenziale, in prospettiva…
Come si chiamano? Certo che un argentino in cabina di regia non ce lo vedo proprio…
Il regista è Alejandro Montecchia, l’altro si chiama Emanuel Ginóbili
Una point-guard proprio no: meglio l’altro… Tanto, dalla numero 57, che ti aspetti?

Lo smilzo non impressiona nessuno scout a stelle e strisce, ma scalda i motori per diventare il vero Eroe dei Tre Mondi cestistici. Mentre Tim Duncan e gli Spurs scoprono quanto sappiano di sale le sconfitte reiterate contro i Los Angeles Lakers, l’Europa impara a conoscere Emanuel David Ginóbili. El Narigón, il Nasone, finisce alla Virtus Bologna e ha la responsabilità di sostituire Sasha Danilovic: l’Italia dei canestri pensa a un anno di transizione bianconera, ma si risveglia con i cori del Grande Slam di Ettore Messina. L’argentino è una furia: annienta il campionato e domina l’Eurolega, si mette in luce con strappi atletici e dimostra una minuziosa conoscenza del gioco, è al tempo stesso la superstar e un ingranaggio comune di un sistema perfetto, non conosce la paura e non dimentica l’umiltà, si prende il Vecchio Continente e abbraccia la Nazionale.

Popovich e Buford benedicono la sorte e accettano di mettere in discussione il pregiudizio che innerva il sistema NBA: se la stella degli Spurs viene dalle Isole Vergini, perché non si può pensare a un altro elemento importante con il sangue e il ritmo dell’America Latina? Nell’estate del 2002 Emanuel Ginóbili attraversa l’Oceano e si prepara a vestire il nero-argento, ma prima di arrivare in Texas lascia un segno indelebile sul Mondiale dell’infamia: gli Stati Uniti crollano in casa e l’Argentina a strappare lo scalpo più prezioso, ma la medaglia d’oro vola verso i Balcani. Una terribile distorsione alla caviglia frena il Nasone sul più bello: l’orgoglio non basta, la resa è inevitabile. Ginóbili non riesce a giocare l’ultimo atto e comincia la stagione da rookie con i postumi dell’infortunio, ma lo sguardo di un figlio di Bahia Blanca trasforma gli ostacoli in opportunità e le paure in sfide.

Titubanze? Rimbrotti? Avversari competitivi? Emanuel sorride e accende il parquet di San Antonio con le scariche incontenibili del genio latino: travolge gli schemi e disorienta gli avversari, vola in campo aperto e fende le difese, penetra là dove i “bianchi” non osano e agisce nelle zone che i “neri” non frequentano. Unisce mondi ed esalta animi, gioca sul confine del rischio e accetta i pericoli del mestiere, ha l’impatto della superstar e il carattere del giocatore di squadra. Duncan lo adora, ma Popovich non riesce a capirlo: lo maledice e si strappa i capelli, s’infuria e diventa paonazzo, ma si rende conto che la scintilla imprevedibile del numero 20 cambia le partite. Lo sbatterebbe sul fondo della panchina e lo riempirebbe di calci, ma si limita a dosi liberali di insulti: quando lo guarda negli occhi, legge attraverso lo stile sfrontato del “descarado” l’approccio di un professionista incredibile e le sinapsi che saldano la sua mano sinistra al trattato di energia tecnico-cinetica nato nelle piscine di Saint-Croix. Il coach accetta la sfida e “apre” il sistema al meticciato latino-caraibico: lo stile CIA si contamina della fantasia di Ginóbili, si appoggia alla leggenda nascente di Tim Duncan e accoglie l’estro franco-belga-chicagoano di Tony Parker. Risultato? La cavalcata verso il secondo titolo: San Antonio si libera dei fantasmi dell’Ovest e straccia i New Jersey Nets all’ultimo atto. La livrea nero-argento è solida come il condottiero, ma coltiva sfumature multiculturali: il campo di allenamento si apre agli stimoli transoceanici del Duemila e lo staff tecnico capisce che il confine fra il basket a stelle e strisce e il mondo FIBA non è mai stato così valicabile.

Chi potrebbe mai abbatterlo in maniera semi-definitiva, se non Emanuel David Ginóbili? Il Nasone ricorda i pianti del mondiale di Indianapolis ed è determinato a regalare all’Argentina la pagina più bella della sua storia olimpica: sotto il cielo di Atene l’Albiceleste vola verso le semifinali e straccia la concorrenza di Team USA, poi spegne i sogni azzurri e porta l’Oro sul Rio de la Plata. Italia ed Europa, America e Cinque Cerchi, San Antonio e Argentina. L’Eroe dei Tre Mondi. Emanuel – che ormai è diventato Manu – raggiunge Bill Bradley sulla poltrona delle leggende capaci di vincere almeno un’Eurolega, un titolo NBA e un oro olimpico, ma non smette di avere fame: quando torna al training camp degli Spurs, incrocia lo sguardo con Tim Duncan e capisce che è giunto il momento di produrre le migliori stagioni di sempre. All-Star e punto di riferimento sul perimetro, starter e sesto uomo, spalla di Tony Parker e scintilla d’innesco dei lunghi, uomo che spacca la partita e anima che avvicina le idee dello staff alla dimensione silenziosa e apollinea del numero 21. Gli Spurs volano alle NBA Finals e incrociano le armi con i Detroit Pistons: ne esce la serie più bella degli ultimi vent’anni, una catena inesauribile di emozioni che abbina la solidità del sistema nero-argento alla “right-way” operaia di Motown e Larry Brown. I concerti delle due squadre più forti, unite e complete della Lega fanno storcere il naso ai broadcaster televisivi e al Commissioner, ma strabiliano gli appassionati: pochi spettatori e mercati piccoli, tante emozioni e partite immense. Gara 7 si snoda sull’equilibrio delle forze che contrappone il genio folle di Rasheed Wallace alla sostanza eterna di Tim Duncan: per spezzare l’impasse più esaltante della storia del basket serve un soffio pazzo, una scarica di adrenalina, un movimento secco.

Ci pensa Manu. Il Nasone strappa la partita e consegna il titolo agli Spurs e all’MVP Tim: anche i media esaltano i Big Three, ma pochi capiscono che Duncan e Ginóbili sono il segreto stereofonico della bellezza del gioco. Poche copertine e tanto impatto, nessun occhio alle statistiche e una “voce” infinita nello spogliatoio, mai una parola fuori posto e sguardi sempre puntati alla crescita del gruppo. Da Tony Parker a Bruce Bowen, da Detroit a Cleveland: la dinastia degli Spurs soffoca le ambizioni di Steve Nash e dei Phoenix Suns e impara a cambiare pelle a seconda dell’avversario che affronta. Run-and-gun contro D’Antoni e “right-way” contro Brown, talento per chi attacca e sistema di squadra per arginare LeBron James… Un miscuglio perfetto, ma gli infortuni e l’anagrafe cominciano a presentare il conto a Coach Popovich: fra il 2008 e il 2012 i Dallas Mavericks, i Los Angeles Lakers e gli Oklahoma City Thunder dimostrano a più riprese che lo Shangri-La di San Antonio si prosciuga nella seconda parte della primavera e non può trascinare Fort Alamo sul tetto del mondo cestistico, ma R.C. Buford e la dirigenza degli Spurs non si rassegnano. Conoscono la forza delle idee meticce e capiscono di avere tra le mani tre giocatori leggendari: Tony, Manu e Tim non si limitano ad abbattere record e a rilanciare la corsa-Playoffs della franchigia, ma educano la nuova generazione nero-argento alla bellezza del sacrificio personale per il beneficio collettivo. Guadagnano meno del massimo e producono statistiche più basse rispetto a quelle dei colleghi-superstar, ma non smettono mai di essere competitivi; rinunciano all’occhio di bue dell’isolamento per costruire un’idea di gioco che unisce l’estetica alla funzionalità; inseriscono menti cestistiche e giocatori reietti per plasmare la Bellezza del basket.

Nel giugno del 2013 Tim e Manu sono a un passo di Ray Allen dal quinto titolo della storia di San Antonio, ma la giocata pazzesca e oltre i limiti dinamici del gioco di “He got game” li costringe a Gara 7 e al boccone amaro di una sconfitta insostenibile: il Nasone è dato per finito e il figlio del Caribe non sopporta l’errore da un metro che ha proiettato LeBron verso il back-to-back, ma i vocabolari latini dello spogliatoio degli Spurs non conoscono il significato della parola “resa”.

Non è la singola picconata che spacca la pietra, ma è la somma di tutte le picconate”. Il mantra di Jacob Riis accompagna la stagione perfetta dei nero-argento: il 2013/2014 è una cavalcata trionfale di armonie statistiche e sinfonie cestistiche, conclusa con il tripudio del Larry O’Brien Trophy. Tutto finito? Ritiro e pensione? Nemmeno per sogno! Tim e Manu tornano in campo e affrontano le difficoltà di uno year-after sofferto e doloroso: si perdono nelle sabbie mobili del selvaggio West, ma l’aria della primavera gli fa ritrovare lo smalto dei momenti migliori. Lo strano allineamento di una classifica tormentata li pone di fronte ai Los Angeles Clippers, la squadra più calda d’America. La serie è indimenticabile: la solidità di Blake Griffin e la magia di Chris Paul regalano il colpo di reni alla vecchia LA minore, ma tutto il mondo dei canestri incrocia le dita per rivedere altre azioni delle leggende viventi.

Duncan e Ginóbili si interrogano e si chiudono in un silenzio che non spegne le speranze dei tifosi, mentre gli Spurs lavorano per costruire il futuro: le mosse della free-agency e la prospettiva di una nuova rincorsa al Larry O’Brien Trophy convincono prima il caraibico e poi l’argentino a riallacciarsi le scarpette. Gli amanti del basket esultano e si sfregano le mani: Duncan e Aldridge, Ginobili e Leonard, Parker e West! San Antonio non smette di costruire una dinastia che si snoda attraverso i gradi di un’eredità prestigiosa: dall’ammiraglio David Robinson agli occhi da cerbiatto di Kawhi Leonard… Dal passato al futuro, passando per il presente: e, grazie al cielo, Tim e Manu continuano a essere l’Oggi del mondo nero-argento!

1 COMMENT

  1. In primis: senza leggere l’autore, ormai riconosco che è un articolo di Degli Esposti dopo le prime due righe 🙂
    Nello specifico, se questa, come davvero sembra, è l’ultima cavalcata del “dinamico duo” il front office di SA non poteva fare di meglio. Come già detto in un altro commento l’unico dubbio nel roster è il poco atletismo e, comunque, io resto dell’avviso che per andare fino in fondo devono riavere il miglior TP.

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