Kobe Bryant, l’uomo che amerà per sempre il Basket

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La carriera di Kobe Bryant, l’atleta Kobe Bryant, l’uomo Kobe Bryant rappresentano un unicum nella storia dello sport. Dello sport, oltre che del basket e del basket NBA. Un atleta, ma prima di tutto un uomo innamorato della palla a spicchi e di tutto ciò che significhi per chi ha donato il cuore, per chi ha fatto di tutto per la propria ragione della propria vita, come scritto nella lettera d’addio dello scorso 29 novembre. L’addio è arrivato e, come sempre succede a chi ha cambiato la storia, porta con sé modesti racconti di chi prova a racchiudere in parole una realtà leggendaria.

Kobe Bryant - © twitter.com/Lakers
Kobe Bryant – © twitter.com/Lakers

We don’t really want you here“. Leggenda o realtà, Bryant dice che il coach degli Hornets, Dave Cowens pronunciò queste parole a seguito della sua scelta alla numero 13 del magico Draft 1996, in cui divenne la prima guardia nella storia ad arrivare in NBA direttamente da una high school, Lower Merion, con base a Philadelphia. Facile da credere perché il roster di Charlotte aveva come prima necessità un centro, che difatti avrebbero trovato in Vlade Divac nello scambio che scrisse la storia del Black Mamba e riscrisse i canoni del basket a stelle e strisce. Più difficile perché, benché ancora immaturo ed acerbo per un palcoscenico così arduo da gestire, Bryant già mostrava i primi segni del campione che sarebbe diventato. Con un’arguzia tipica italiana, che ben aveva conosciuto nell’infanzia trascorsa nel nostro Paese al seguito del padre Jellybean, sapeva esattamente quale doveva essere il suo obiettivo. La sua unica volontà erano i Lakers, con cui sarebbe potuto diventare un simbolo internazionale dello sport di cui era innamorato. Al resto avrebbero pensato una dedizione maniacale ed un sacrificio totale, utili ad elevarlo ai ranghi dei migliori interpreti di sempre con la canotta gialloviola. Di modo che il basket potesse rendere onore a colui che, fin da bambino, lanciava “immaginari tiri della vittoria” nei propri sogni. Poi divenuti una splendida realtà.

I Lakers, quando il giovane diciottenne con la numero 8 fa il suo ingresso nella NBA, sono nel mezzo dei complessi anni ’90, iniziati con una cavalcata fino alle Finals perse contro i Bulls e proseguiti poi senza infamia e senza lode. Per questo arriva Shaquille O’Neal dai Magic, per questo si tenta l’azzardo Bryant senza sborsare ulteriori cifre astronomiche. Divac accetta lo scambio dopo aver minacciato il ritiro e Kobe può iniziare il proprio viaggio. Dall’essere diventato famoso soltanto per i quattro airball con cui distrugge la semifinale playoff in favore dei Jazz il primo anno, raddoppia il minutaggio e diventa il più giovane All-Star di sempre a 18 anni e 169 giorni, mentre il secondo diventa insostituibile ed a ridosso dei 20 punti a partita già nella terza stagione nella Lega. A 21 anni giova dell’arrivo del suo sensei, Phil Jackson, per diventare il più giovane di sempre nel primo quintetto difensivo. A fine anno, dopo una finale coi Pacers in cui dimostra di essere un giocatore di livello assoluto in una gara 4 vinta praticamente da solo al supplementare, Bryant è campione NBA per la prima volta. I titoli diventano due, dopo un’estate passata ad allenarsi a ritmi folli per spingersi oltre i propri limiti e quelli dell’attacco Triangolo di Jackson, per raggiungere i 29.4 punti di media nei playoff da 15 vittorie su 16 partite giocate. Poi tre, in un’annata in cui soltanto i Kings spaventano il predominio gialloviola.

Il primo violino, però, è sempre Shaq, che si porta a casa tre titoli di MVP delle Finals consecutivi, lasciando al compagno il solo titolo individuale di miglior giocatore dell’All-Star Game. Bryant alza la voce fino ai 30 punti a partita del 2002/03, ma il meccanismo si sta incrinando e l’accusa di stupro dell’anno successivo mettono il nativo della City of Brotherly Love con le spalle al muro. Uscito indenne dal processo, si spinge con i Lakers fino alle Finals, ma la cassaforte dei Pistons mostra i limiti dell’intesa offensiva di squadra lasciando loro appena 81 punti a partita.
81, un numero come tanti? Non fino a che, dopo la prima stagione con O’Neal in Florida trascorsa nell’anonimato, il numero 8 sigli la miglior prestazione mai vista dal 2 marzo 1962, quando Wilt Chamberlain siglò i 100 punti più famosi nella storia del gioco. Il 22 gennaio 2006 Bryant si ferma 19 lunghezze più indietro, al 36% dei 226 punti totali della partita contro i Raptors, compiendo un’impresa che lo rende a livello globale il simbolo del basket contemporaneo. Eppure, né i 35.4 punti di media in quella regular season, né il successivo secondo titolo consecutivo di capocannoniere placano le acque, tanto che il neonato numero 24 sembra vicino a lasciare la City of Angels. “Il 24 riassume la mia dedizione totale, 24 ore al giorno alla pallacanestro“. Arriva Pau Gasol, arriva l’unico titolo di MVP in carriera, ma i Lakers sbattono contro i Celtics alle Finals.

Bryant condivide con Shaq il titolo di MVP di un magico All-Star Game, poi ne cancella il fantasma grazie a oltre 32 punti e 7.4 assist di media nella serie finale contro i Magic, in una stagione in cui dimostra dove può spingersi la sua fame di rivalsa e di vittorie. La quinta impresa, quella che riempie anche l’ultimo dito di una mano con l’anello, quella più dolce perché ha sapore di vendetta contro Boston, quella che lo definisce forse più di tutte, tra pregi e difetti, vive la sua conclusione in una gara 7 indimenticabile, datata 17 giugno 2010. Finiscono qui le emozioni più forti nella carriera di un uomo che non vede differenza tra l’essere la peggior squadra di tutta la NBA e raggiungere, senza vincere, le Finals, perché non significa portare a casa il titolo.
Prima del Farewell Tour di quest’anno, prima dei saluti, Bryant continua a scrivere la propria leggenda arrivando per primo a 30.000 punti con 6.000 assist, diventando il terzo miglior marcatore della storia NBA con 33.643 punti segnati, ma anche quello con più errori al tiro nella storia. Numeri che, per quanto grandi, non potranno mai definire a pieno l’importanza e l’impatto da lui avuti su quel gioco che si è preso ogni sua energia, donandogli in cambio quel posto nell’olimpo che sognava fin da bambino.

Kobe Bryant - © twitter.com/Lakers
Kobe Bryant – © twitter.com/Lakers

Sui Lakers ed il general manager Mitch Kupchak racconta che, nell’intento di cancellare il suo nome dalla lavagna bianca dove è rimasto scritto per 20 anni, non sia bastata una semplice gomma, perché il suo nome è rimasto indelebile d’inchiostro. Sul basket NBA, donando “the closest thing we’ve seen to Michael Jordan“, secondo Magic Johnson. Sul basket, perché dal 13 aprile 2016 non ci sarà mai più un Kobe Bryant. Tra pregi e difetti, come sempre, per l’uomo che lo amerà per sempre.