Steph Curry è il primo Most Valuable Player all’unanimità nella storia NBA

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Stephen Curry - © 2016 twitter/NBA
Stephen Curry – © 2016 twitter/NBA

Qui non è soltanto questione di vincere un titolo di Most Valuable Player difficilmente discutibile alla luce di quanto mostrato nella regular season appena andata in archivio. Qui si tratta di riscrivere, ancora una volta, i libri di storia del basket ed apporre l’etichetta unanimously al secondo trofeo consecutivo da miglior giocatore del pianeta. Per la prima volta di sempre nello sport in questione, per la terza, dopo Wayne Gretzky nell’hockey su ghiaccio (1982) e Tom Brady nel football americano (2010), da quando esiste il premio in queste discipline dello sport a stelle e strisce. Semplicemente pazzesco.

Per capire la portata del termine unanimously urge fare qualche paragone col passato. Prima di Curry, Shaquille O’Neal e LeBron James sono i due giocatori che più si sono avvicinati a conquistare l’unanimità, andando ad un solo voto dall’incredibile impresa. Al primo non bastò una stagione da 29.7 punti, 13.6 rimbalzi e 3 stoppate di media, guidando i Lakers ad un record di 67-15, perché Fred Hickman sostenne che i gialloviola sarebbero stati comunque una grande squadra senza Shaq, mentre i 76ers sarebbero crollati a picco senza l’apporto di Allen Iverson. Al Prescelto, invece, non servì una regular season da 26.8 punti, 8 rimbalzi e 7.3 assist, tirando con il 56.5% dal campo e facendo volare gli Heat ad un season-high a quota 66 vittorie. Gary Washburn votò infatti il top scorer dell’anno, Carmelo Anthony, per un motivo simile al predecessore, considerando che Miami aveva a roster anche Dwayne Wade e Chris Bosh. Michael Jordan, nella celeberrima stagione da 72 vittorie del 1995/96, conquistò uno dei suoi cinque titoli di MVP con quattro voti contrari, uno a testa per Hakeem Olajuwon e Karl Malone e due per Penny Hardaway. Anche la storia sembra dimostrare quanto il fenomeno sia inusuale. James Monroe, nel 1820, dopo aver conquistato l’appoggio per il proprio secondo mandato alla Casa Bianca da ciascuno dei 24 stati allora presenti, mancò l’unanimità per colpa di uno dei Grandi Elettori, William Plumer del New Hampshire, che votò per l’amico John Quincy Adams. Il solo George Washington è stato eletto senza discordia alcuna nella storia degli Stati Uniti.

Tornando a questioni di basket, si potrebbe opinare a Curry la medesima critica mossa a proprio tempo ai due predecessori. Si potrebbe, perché è difficile renderlo giudizio effettivo. Lo strapotere di squadra degli Spurs è sotto gli occhi di tutti e, benché Kawhi Leonard, secondo con 634 punti, sia nuovamente esploso, confermandosi leader di squadra e miglior giocatore NBA sulle due fasi del gioco, non manca di talento al fianco. LeBron James ha scritto la peggior media punti dall’anno da rookie (24.9), ma vi aggiunge 7.2 rimbalzi, 6.6 assist ed il 50.5% al tiro, chiudendo sulla parte bassa del podio con 631 punti. Sebbene Kyrie Irving e Kevin Love non siano probabilmente stati decisivi quanto Draymond Green nel conquistare vittorie, è però indubbio che il loro valore sia eccezionale. Russell Westbrook, quarto classificato con 486 punti, ha direttamente alle proprie spalle il compagno di squadra Kevin Durant, che in parte ha oscurato le sue medie fantascientifiche da 24.3 punti, 7.5 rimbalzi e 10.3 assist a partita. Ecco che, quindi, i 1.310 punti totali per l’asso dei Warriors sono riconducibili solo ed esclusivamente ad un giudizio personale dei singoli 130 votanti tra Stati Uniti e Canada, oltre che del voto popolare, concorde nel consegnare uno dei primi posti attraverso un sondaggio di Kia, lo sponsor che dà il nome al premio. E qui si può cominciare ad elencare le motivazioni che hanno condotto alla sua elezione senza macchia. Con una premessa: Curry ha permesso a Golden State di rivoluzionare il gioco del basket e si è portato con sé un record unico ed irripetibile come le 73 vittorie in regular season. Che ciò piaccia o meno.

Stephen Curry - © 2016 twitter/NBA
Stephen Curry – © 2016 twitter/NBA

Per lui parlano i numeri. Il career-high a quota 30.1 punti di media, ben 6.3 in più rispetto alla passata stagione, non sorprende comunque quanto le 402 triple totalizzate, primo a toccare non soltanto la quota più prossima al numero, ma anche le 300, quota per altro raggiunta a fine febbraio. Le 5.4 bombe a partita non l’hanno fermato dall’entrare nell’esclusivo club da 50 (50.4%) – 40 (45.4%!) -90 (90.8%), intesi come percentuali dal campo, da tre punti ed ai liberi. Se Steve Nash resta padrone indiscusso con quattro stagioni simili, Curry raggiunge Larry Bird e Kevin Durant ad una, ma è l’unico di sempre ad esserci riuscito con oltre 30 punti di media ed una tale quantità di canestri da oltre l’arco. Ciò non bastasse, ha guidato anche la Lega con 2.1 rubate a partita, 13 match da almeno 40 punti segnati, di cui 7 nelle prime 24 sfide vinte consecutivamente per un altro primato pazzesco, e 3 da oltre 50 punti. La prestazione iconica della sua stagione resta quella da 46 punti e 12 triple segnate contro i Thunder, tra cui quella della vittoria allo scadere da ben oltre 9 metri. Le 12 perle sono un record, nemmeno a dirlo, alla pari con Kobe Bryant e Donyell Marshall. Curry è il terzo giocatore di sempre a guidare la Lega per punti e steals a partita dopo Jordan ed Iverson, oltre che la terza point guard con almeno due titoli di MVP dopo Magic Johnson e Nash, il 13esimo in totale. La sensazione è quella di aver di fronte qualcosa che resterà nella leggenda perenne di questo sport. Ci saranno ancora tanti Most Valuable Player. Eppure si tornerà sempre qui, all’edizione numero 61, per ricordarsi del primo che scrisse la parola unanimously.

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