Una gloriosa e tumultuosa cavalcata: Steve Kerr è l’Head Coach of the Year

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Steve Kerr - © 2016 twitter/NBA
Steve Kerr – © 2016 twitter/NBA

E’ l’anno più difficile della mia vita, per distacco“. Verrebbe difficile da credere, detto da chi ha appena ricevuto il premio di Head Coach of the Year, allenatore della squadra che ha portato a termine la miglior regular season nella storia NBA. Non si vive di solo basket, però. Steve Kerr ha, infatti, dovuto abbandonare la panchina dei suoi Warriors per 43 delle 82 partite stagionali ed ha per questo chiesto personalmente che il premio fosse consegnato a qualcun altro, perché non voleva prendersi eccessivo merito per le 39 vittorie, con appena 4 sconfitte, conquistate con il suo vice e neo-allenatore dei Lakers, Luke Walton a presiedere le operazioni. Quest’ultimo ed il general manager Bob Myers hanno aiutato non poco l’ex giocatore di Bulls e Spurs nel difficile percorso di riabilitazione, dopo che un’ernia al disco aveva provocato la perdita di liquido spinale. Una situazione delicata, su cui si è dovuti intervenire con prontezza. Ed hanno vissuto personalmente un’annata travagliata, il primo a seguito della morte del cognato, Scott Dinsmore, in un incidente mentre scalava il monte Kilimanjaro lo scorso settembre, il secondo per questioni puramente sportive, ma non indifferenti, trovandosi a 35 anni di punto in bianco alla guida del team campione NBA in carica. Dietro le vittorie di Golden State c’è molto più di una squadra.

Così come c’è molto altro dietro al record che ha fatto sobbalzare gli appassionati durante il finale di stagione, ovvero le 73 vittorie su 82 partite, raggiunte come mai prima d’ora. Kerr, che dei famosi Bulls da 72 successi era un uomo fondamentale dalla panchina, ha dunque aiutato a replicare, con gli interessi, le 67 affermazioni dell’anno scorso, un record per un coach al primo anno su una panchina NBA. Sono arrivati, inoltre, i primati per numero di vittorie in trasferta (34) e quello per numero di gioie casalinghe consecutive, 54, tra la fine dell’anno passato e le prime 36 di questa stagione. I Warriors non hanno mai perso due partite consecutive o contro il medesimo avversario per due volte, entrambe primizie nella storia della regular sason. Le leadership per punti segnati (114.9 di media), offensive rating (112.5 punti ogni 100 possessi), differenza punti (+10.8) ed assist (28.9) si accompagnano ad un’incredibile percentuale al tiro del 49%, letteralmente assurda se si considera che i californiani sono diventati i primi di sempre a sfondare il muro delle 1.000 triple segnate in un’annata (1.077). Onore a Walton, che ha conquistato da timoniere la partenza da record nella storia dello sport professionistico americano (24-0) ed è stato nominato miglior allenatore ad Ovest del mese tra ottobre e novembre, così come poi a marzo è successo a Kerr, diventato il primo nella storia della franchigia con tre successi simili.

Non è il primo, ma il terzo head coach dei Warriors a conquistare il Red Auberbach Trophy, dopo Alex Hannum nel 1963/64 e Don Nelson nel 1991/92. Kerr, che al momento detiene un record pazzesco di 140 vittorie ed appena 24 sconfitte (0.854) da capo-allenatore, ha ricevuto 64 primi posti tra i 130 votanti e 381 punti totali, davanti ai 335 assegnati a Terry Stotts, mago del miracolo Blazers, ed ai 166 per Gregg Popovich, infinito guru del basket con base a San Antonio. “Non penso che qualcuno si renda minimamente conto di ciò che hai passato quest’anno“, ha affermato Myers durante la cerimonia di premiazione al suo pupillo. Kerr si è reso conto di quanto la vita possa dare e poi togliere anche in questi playoff, in cui il sicuro MVP della regular season, uno Steph Curry a livelli straosferici, ha dovuto abbandonare la serie poi vinta 4-1 contro i Rockets per un problema al ginocchio. Il suo rientro è ancora incerto. “Nulla nella vita è mai garantito“, ha affermato l’head coach. Certe vittorie, certi record, certe leggende, però, restano scritte nella storia, di modo che il tempo non le possa mai cancellare.