LeBron James mantiene la promessa: “Cleveland, è per te!”

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L'arrivo a Cleveland di LeBron James - Stopframe Youtube
L’arrivo a Cleveland di LeBron James – Stopframe Youtube

La nostra comunità, che ha avuto tante difficoltà, necessita di tutto il talento che può avere. Nel Nordest dell’Ohio nessuno ti regala niente, te lo devi guadagnare. Devi lavorare per ciò che hai. Sono pronto ad accettare la sfida, torno a casa“. Così si concludeva nell’estate 2014 la lettera affidata a Lee Jenkins di Sports Illustrated con cui LeBron James annunciava l’addio ai Miami Heat dopo quattro stagioni, quattro finali e due titoli NBA e il ritorno ai Cleveland Cavaliers, la sua casa, l’Ohio, il luogo in cui è nato ed è cresciuto. Oggi, a due anni di distanza, LBJ ha vinto quella sfida regalando alla sua gente il titolo NBA: “This is for you Cleveland!“.

Era l’8 agosto 2014 quando un’intera comunità, oltre 30mila persone, ha gremito lo stadio del football della Akron University per festeggiare il ritorno a casa del suo Re, formatosi a South Beach e ora finalmente pronto a portare il “suo” di regno a comandare la NBA. Da brividi il concerto di Skylar Gray che intona “I’m coming Home” e ancor più da brividi LeBron che prende il microfono e dice: “In questi mesi ho pensato che per essere felice devo fare qualcosa per rendere felice la mia città e il mio stato. Per questo sono tornato a casa. I’m back!“.

In questi due anni James ha dovuto fare i conti con le pressioni di sempre, con la critica sempre col mirino addosso, con i dissidi con gli allenatori, prima David Blatt e poi lo stesso Tyronn Lue, i problemi con i compagni, su tutti Kevin Love e anche Kyrie Irving. Nella scorsa stagione ha portato di peso i Cavaliers in finale e lì, praticamente da solo, ha costretto i Golden State Warriors fino a gara 6 prima di inginocchiarsi a Steph Curry e compagni. In estate ha preteso che il gruppo fosse riconfermato, a partire da Kevin Love, e così è iniziata una nuova campagna alla caccia del titolo. Poi il fattaccio Blatt: coach esonerato nonostante un record di 30-11 e panchina a Tyronn Lue. Altro attacco diretto a LeBron che scrolla le spalle e va avanti.

I Cavs non si fermano nonostante le sconfitte con le big dell’Ovest, Warriors su tutti, e nei playoffs veleggiano arrivando alle NBA Finals con sole due sconfitte contro i Raptors nella finale della Eastern Conference. Con Love e Irving sani e arruolabili, la battaglia con Golden State sembra favorisca Cleveland ma le prime due gare della serie alla Oracle Arena sono un disastro e così tutto fa pensare all’ennesimo fallimento, all’incompatibilità con Irving, all’inadeguatezza di Love e alle lune di JR Smith e Iman Shumpert. La sconfitta di gara 4 in casa che lancia Golden State sul 3-1 sembra spalancare il baratro ma lì, complice la sospensione di Draymond Green, fa scattare qualcosa in James e nei Cavs: “Se loro hanno rimontato da 3-1 ai Thunder, perchè non possiamo farlo noi?“.

E infatti gara 5 è sensazionale, LeBron segna 41 punti e viene affiancato da un mostruoso Irving che replica lui pure con 41. Una prova leggendaria per una coppia di compagni. In gara 6 torna Green ma ormai l’inerzia è dei Cavs: James segna altri 41 punti e si sale nuovamente sull’aereo per la Bay Area, per gara 7, la madre di tutte le partite. I Warriors sono favoriti perchè giocano in casa, perchè non perdono tre gare di fila dal 2013 e perchè nessuno ha mai vinto un titolo rimontando da 3-1. Cleveland non ci sta, gioca un’altra partita pressochè perfetta, James piazza la tripla doppia e poi firma la giocata che resterà negli annali, “The Block”: a 56 secondi dalla fine di gara 7, sull’89 pari, i Warriors partono in contropiede con Iguodala lanciato verso il canestro, sembra tranquillo per il lay up ma da dietro si materializza il Re che gli inchioda il pallone sul vetro e di fatto manda al tappeto i Warriors, un ko poi concretizzato dalla tripla di Irving.

Al suono della sirena James crolla sul parquet della Oracle Arena in lacrime. E’ il giorno del papà e come Michael Jordan nel 1993 dopo il titolo contro i Suns, anche LeBron scoppia in un pianto: MJ aveva appena perso il padre, ucciso da dei balordi ad una stazione di servizio, James non l’ha mai conosciuto suo padre e non si sa nemmeno che sia, lui che è stato partorito dall’allora 16enne signora Gloria che l’ha cresciuto e ha fatto sì che non prendesse la strada sbagliata. Fin dai tempi di St. Vincent-St. Mary’s High School era l’uomo che attendevano l’Ohio e Cleveland per risorgere, per rompere un incantesimo che durava dal 1964 quando Jim Brown portò i Cleveland Browns alla vittoria del Superbowl NFL contro i Colts. 13 anni dopo essere stato chiamato dai Cavaliers con la numero 1 del Draft 2003, con in mezzo il fattaccio della “Decision”, i quattro anni a Miami e due titoli con gli Heat, James è tornato e ha mantenuto la promessa.

LeBron ha fatto ingoiare le critiche a tutti gli haters, ce l’ha fatta, ha portato il titolo ai Cleveland Cavaliers, il terzo della sua carriera, ed è stato eletto MVP delle Finals all’unanimità. Il 10 luglio 2014 a Las Vegas disse: “Non so se si tratta di una favola. Ma spero che si concluda nel modo in cui finiscono“. Non è stata una favola ma il lieto fine è arrivato, meritato per uno che porta un peso enorme sulle spalle da quando è un liceale e per una città, chiamata “Mistake on th lake”, “L’errore sul lago Erie”, che per troppi anni ha dovuto sopportare delusioni e ingoiare bocconi amari. This is for you, Cleveland!.