ROAD TO MVP: James Harden, il faro dei nuovi Rockets

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James Harden © twitter HoustonRockets
James Harden © twitter HoustonRockets
Gli Houston Rockets sembrano viaggiare spediti in questa primissima parte di stagione, piazzandosi momentaneamente al quarto posto (in coabitazione con Memphis) a quota 8 vittorie e 5 sconfitte, immediatamente alle spalle delle superpotenze Golden State, San Antonio, Los Angeles Clippers. Il segreto del loro iniziale successo risiede soprattutto nella proverbiale fase offensiva, la terza per efficienza dell’intera Lega con 109.1 punti di media realizzati a partita.
Gran merito del confortante avvio di stagione della franchigia texana va dato al proprio giocatore di riferimento, quel James Harden che, in coabitazione con Russell Westbrook, si sta meritando temporaneamente il ruolo di MVP grazie a prestazioni che rapidamente stanno cancellando le delusioni patite nella scorsa stagione, quando i Rockets conclusero prematuramente al primo turno playoff la loro post-season. The Beard ha finora all’attivo già 7 doppie-doppie e 3 triple-doppie nelle prime 13 uscite stagionali, facendo registrare statistiche sbalorditive: 28.7 punti, 12.5 assist, 7.8 rimbalzi, 1 rubata di media ad ogni allacciata di scarpe; inoltre sta abbattendo qualsiasi tipo di record, catalizzando su di sé paragoni importanti e rosee previsioni per il futuro suo e della franchigia. Già da tempo fra i top player della NBA, questa appare per lui la stagione della definitiva consacrazione, nella quale provare ad giocarsi le possibilità di raggiungere importanti riconoscimenti individuali e di squadra, dopo aver sfiorato, soltanto due stagioni or sono, il premio di MVP e l’accesso alle sue seconde Finals in carriera.

In una recente intervista ha dichiarato:

“So di essere stato io l’MVP della stagione 2014/2015, senza nulla togliere a Steph Curry. Sono semplicemente il miglior giocatore del pianeta, e non sono nemmeno vicino al raggiungimento del mio massimo potenziale.”

Spregiudicato, spocchioso, ma in effetti sincero a voler guardare le sue attuali statistiche, il Barba rende facile ciò che per qualsiasi giocatore sembra impossibile: sono già 5 le sue partite in stagione con almeno 30 punti e 15 assist (Westbrook è l’unico ad esserci riuscito, ma solo una volta in stagione), si sta avvicinando progressivamente alle abituali prestazioni offerte sul parquet da uno dei suoi modelli, quel Magic Johnson che di questo tipo di numeri era l’indiscusso protagonista, ma che, a differenza di Harden stesso, non è mai riuscito a realizzare almeno 300 punti e 150 assist nelle prime 12 uscite stagionali; per ritrovare un giocatore che, prima del Barba fosse riuscito a centrare questo record, è necessario risalire al 1961 con Oscar Robertson.

Volendo individuare la variabile che ha permesso alla guardia dei Rockets un miglioramento così significativo in termini di prestazioni, è inevitabile citare il nuovo coach Mike D’Antoni, resosi a tutti gli effetti l’autore della trasformazione dell’asso di Houston da un eccellente scorer ad un giocatore totale e a completa disposizione della squadra, il direttore d’orchestra di un sistema fluido ed efficiente. Tanto nell’era McHale quanto nella breve parentesi Bickerstaff, ad Harden veniva chiesto di fare punti, effettivamente ottenendo dei riscontri positivi; D’Antoni, però, ha voluto caricarlo di una responsabilità maggiore, quella dell’impostazione dell’azione, della creazione del gioco, di provare a sfruttare anche le sue qualità da passatore, conseguendo risultati che oltrepassano le aspettative di inizio stagione.

Non solo D’Antoni però, il cambiamento di gioco di Harden è frutto di un personale cambio di mentalità pervenutogli, forse, in seguito ad una maturazione cestistica accresciuta rispetto alle stagioni precedenti, che ha generato in lui una fiducia maggiore nei confronti dei propri compagni, i quali possono solo beneficiare degli assist che l’ex OKC scarica in continuazione verso di loro. James è probabilmente giunto in quel momento preciso della carriera di un fuoriclasse nel quale si smette di voler cercare a tutti i costi la gloria personale per diventare il leader di un gruppo da trascinare a grandi successi: è già avvenuto con Michael Jordan prima, con Kobe Bryant in seguito e con Lebron James pochi mesi fa. Il suo prossimo step è quello di sfruttare a pieno il notevole potenziale offensivo del suo team per trasformarlo in una mina vagante, una squadra letale che, al di là delle aspettative mediatiche, possa arrivare nel momento topico della stagione in grado di far male a qualsiasi avversario.