Nessun dubbio, Stephen Curry è il co-MVP delle NBA Finals

0
2500
Stephen Curry, NBA Finals 2018 – Photo by Gregory Shamus/Getty Images

Nel 2015 si è dovuto arrendere ad Andre Iguodala, decisivo per cambiare la serie con l’ingresso in quintetto. Nel 2017 si è piegato ad un mostruoso Kevin Durant. Questo sembrava il suo anno, soprattutto dopo la gara 2 col record di triple in una gara di finale, 9, e i 37 punti nel quarto e conclusivo episodio della serie. Invece, a sorpresa, il premio di MVP delle Finals è andato ancora a KD, premiato per la costanza altissima nelle 4 partite e per la gara 3 da 43 punti, quella che di fatto ha mandato al tappeto i Cavs di LeBron James. Non cambia nulla, lo stesso Durant ha sviato ogni polemica, idem Steph: possiamo però dire che il figlio di Dell è almeno co-MVP di queste Finals!

I numeri sono con Steph

Non ci sono dubbi che Durant sia il miglior giocatore dei Warriors ma è Curry quello che sta alla base del gioco e del sistema di Golden State, è lui il metronomo, quello che con la sua sola presenza tiene in scacco le difese avversarie (chiedere ai Cavs…), quello che solitamente spacca le partite con i suoi canestri impossibili e che, soprattutto alla Oracle Arena, coinvolge il pubblico e rende praticamente imbattibile la squadra in casa. Le Finals 2018 sono le migliori in carriera a livello statistico – 27.5 pts, 6.8 ast, 6.0 reb, 26.8 pts, 9.4 ast, 8.0 reb nel 2017, 22.6 pts, 3.7 ast, 4.9 reb nel 2016 (reduce da infortunio e titolo perso), e 26.0 pts, 6.3 ast, 5.2 reb nel 2015 -, ha steccato soltanto gara 3 pur avendo comunque infilato 5 decisivi punti nel finale, mentre in gara 1 ha messo 8 punti pesantissimi nel quarto periodo. Di gara 2 col record di triple e di gara 4 con 37 (20 nel solo primo tempo, massimo eguagliato per lui nelle finali) già sappiamo, però non è bastato visto che gli 11 giornalisti chiamati al voto dell’MVP hanno dato 7 preferenze a Durant e 4 al figlio di Dell.

La faccia dei Warriors

Non ha vinto il premio di MVP delle Finals ma Curry è senza dubbio la faccia di questi Warriors e da tempo ormai uno dei volti planetari dell’NBA – testimoniato dal costante primo posto fra le maglie più vendute -, senza contare il marchio Under Armour che da anni lo ha eletto a suo testimonial assoluto e ha diffuso un nuovo spot immediatamente dopo la fine di gara 4. Steph è proprio il simbolo di Golden State, coi suoi pregi e coi suoi difetti, col gioco senza alcuna paura di sbagliare, in totale leggerezza e anche con l’arroganza, la sfrontatezza e i cali di tensione. Col tempo forse è diventato anche un po’ antipatico a chi non tifa Golden State, per le sue esultanze, i balletti, lo “shimmy“, il paradenti costantemente fuori dalla bocca e masticato, le giocate con sufficienza, però è difficile non provare ammirazione per questo normolineo che di fatto ha cambiato tanto il gioco negli ultimi 6-7 anni.

In un club ristretto

Per il “Bill Russell Award” deve aspettare quindi, magari soltanto 12 mesi visto che i Warriors sembrano ancora favoriti per il titolo 2019, ma in ogni caso Stephen Curry è già entrato in club molto molto ristretto. Infatti è diventato l’ottavo giocatore di sempre a vincere tre anelli e due premi di MVP stagionale (nel 2016 all’unanimità, primo nella storia) eguagliando mostri sacri del calibro di Kareem Abdul-Jabbar, Bill Russell, Michael Jordan, LeBron James, Magic Johnson, Larry Bird e Tim Duncan, e inoltre è soltanto il terzo con 3 titoli e 2 MVP nell’arco di 4 anni, raggiungendo due miti come Jordan e Bill Russell. Ecco, per uno entrato in NBA in punta di piedi e che ha generato scalpore quando la franchigia cedette Monta Ellis e non lui ai Bucks per Andrew Bogut, diciamo che sta andando piuttosto bene, e non è finita qui…